Fondamento dell'agire morale Levinas-Jonas

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ciampi20
view post Posted on 27/6/2009, 10:26




MESSAGGI PERSONALI SUL MIO VIDEO SU LEVINAS
QUESTO MESSAGGIO è STATO INVIATO DA Alex4LP

Ciao. Complimenti per il discorso, molto ben fatto. Mi chiamo Alessandro. Ho lasciato un commento, perché mi par strano che la ricerca di un fondamento etico, inteso come modello valoriale caratteristico dell' uomo in quanto specie, possa essere solo un' utopia. Secondo me, l' uomo va considerato in termini Jonassiani, e il fondamento dell' agire morale, va ritrovato nei benefici che questo comporta sia nella realizzazione del mio progetto, che in quelli altrui.

se noi consideriamo l' uomo in termini Jonassiani, esso è caratterizzato da alcune caratteristiche biologiche, per le quali esso si definisce uomo appunto. In tutte le forme di cultura al mondo, si può individuare una sorta di funzione aprioristica, che porta gli uomini a riunirsi in alleanze, coalizioni, società, più o meno evolute ( dipende dal concetto di evoluzione ). Questa sua tendenza, non può essere un forte indice dal punto di vista della costruzione di un modello valoriale? e se tal modello fosse la vera e propria autenticità della vita dell' uomo, se fosse qualcosa che risiede in lui formalmente, e che poi trova espressione nella vita pratica, un qualcosa che non va costruito o imposto, come avrebbe fatto Kant, con una deontologia normativa, ma che va semplicemente ricercato? Che l' uomo sia in grado di uscire da sé per abbandonarsi all'alterità, non lo nego, anzi, è un concetto molto bello, ma a mio parere ciò non va ad intaccare il fondamento naturalistico dell'etica, vista come un qualcosa proprio della sfera umana. O forse sarebbe più appropriato stabilire una gerarchia etica, e mettere l' etica dell' alterità al primo posto, ma senza rinnegare l' etica naturalistica, poiché questa risulta l' unica che può essere il giusto mezzo per una società pienamente morale, senza ricadere nell'utopia. Si tratta di riuscire ad unificare la categoricità formale kantiana, con il contenuto contestualizzante di Jonas, ma non per costruire un giustificazionismo logico, bensì, per autoconoscersi, perché comprendendo noi stessi, allora potremo finalmente elaborare una morale adatta a noi. Probabile che Socrate abbia ragione quando dice che la ricerca della verità è un processo infinito... ma questo può andare via via solo a migliorare le nostre condizioni. Secondo me, considerare l' etica, come è un ente a sé stante, indipendente dalla sfera soggettiva, risulta degna solo di alcuni uomini, in grado di comprenderla a fondo, ma è qualcosa di più del giusto mezzo, perché supera il nostro finalismo progettuale, in quanto possibilità immanente di trascendenza, e non fine da compiersi.

Il linguaggio può essere ingannevole, ma esso altro non è che il mezzo per giungere al significato. L'interpretazione personale, che deriva dalle esperienza che ognuno ha della vita, toglie al linguaggio la sua universalità, che in sé nasce col nobile fine di trasmettere verità. Benché la natura dell'uomo sia certamente complicata, non si può negare una teleologia di fondo nel suo agire. Ognuno di noi agisce per uno scopo. La mia paura, è che questo circolo vizioso possa essere riscontrato in un etica dell' entità, per il semplice fatto, che se non legata alla nostra natura, essa può risultare insensata. A colui che chiede quale sia il motivo di agire eticamente, se non si riesce a conciliare l' etica con la nostra natura, non si può rispondere. Per questo è importante secondo me, riuscire non ad imporla, bensì a considerarla come una parte importante di noi in quanto uomini. Che dopo nella società si sviluppino tabù, e aspetti psicologici negativi, ( basti pensare ad il principio di piacere e realtà Freudiano, o all'inconscio collettivo di Jung ), questo è vero, nel senso che essa plasma il tuo modo di pensare. Ma la formalità di fondo è simile in tutte le culture, il che è un dato di fatto, che secondo me non costituisce il principio di un semplice circolo vizioso. Oppure indagando la nostra natura biologica, e legando l' etica, ad un principio di sopravvivenza della specie, come intende Jonas, oltre che a giusto mezzo che permette al nostro progetto di compiersi, è un qualcosa che va oltre, sempre secondo me, a una funzione aprioristica, se per essa si intende una semplice categoria.. essa è un modo d'essere del nostro essere. Di certo che questa non è una certezza, come possiamo costruire certezze su di una creatura che conosce così poco se stessa; ma non per questo, tal ricerca di autocoscienza e autoconoscenza deve essere abbandonata o screditata a priori, perché essa può costituire un valido argomento alla fondatezza dell' agire morale, ossia una risposta alla domanda sul motivo di agire nel nome dell' etica. Inoltre, che l' agire etico favorisca il futuro dell' umanità stessa, o più nel piccolo, dei propri figli, è un dato di fatto oggettivo, che si stabilisce nel rapporto con la realtà che ci circonda
 
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Codadilupo83
view post Posted on 10/7/2009, 01:57




Questo mio intervento è il medesimo in due discussioni, e questo perché mi pare esse si muovano su di un terreno in ultimo comune, ovvero quello che si pone il problema della origine, l’una più in generale, l’altra nello specifico della questione morale.
Ho letto cose molto virtuose ed interessanti in queste discussioni e così mi sono detto che era l’occasione di intervenire. L’origine. L’uomo. Il linguaggio. Le tribù. Ma ci sono queste cose? Heidegger, ad esempio, compie un lavoro straordinario etimologico-filosofico che un poco ricorda il vichiano tentativo di reciproca fecondazione filosofia-filologia (verum et factum conventuntur); e così il buon Martin ha consegnato una eredità al nostro presente filosofico che è decisiva e della quale non possiamo fare a meno. Ma prima di lui la genealogia nicciana: l’unico modo filosoficamente fondato di parlare della “storia” e dell’ “origine” (a parte il modo logico-metafisico del quale ho già scritto su Hegel e Derrida). Qui arriviamo al punto. Noi possiamo bensì parlare del passato e dire: vedi, questa è l’origine di quello che siamo, questo nostro uso deriva da questo, l’uomo viene dalla scimmia, il libro (il testo) viene dalla esportazione della carta dalla Cina in Europa dove si sono applicati “nuovi usi di vecchie funzioni”, per usare una espressione di Wright. Queste constatazioni storiche etnografiche filologiche antropologiche sono preziosissime. Ma qui la filosofia non è ancora arrivata, con il suo ronzio fastidioso e la sua puntura da tafano, con il suo sguardo spaesante e il suo occhio bovino. Essa arriva e chiede: caro amico, che legittimità ha il tuo dire? domandi, ma ogni domanda vuole l’origine? e all’origine sta la domanda? oppure, quale è l’origine del domandare? e può chi così domanda credere di catturare con la sua domanda lo stacco evenemenziale che ha dato avvio alla domanda, un luogo che non prevede domande e di cui non si può dare “definizione”? Certo, in quanto occidentali non possiamo che domandare, proprio nel momento del trionfo dell’occidente su scala planetaria. Ma se vogliamo esercitare la filosofia, ovvero celebrare la razionalità occidentale nella sua manifestazione più alta, non possiamo esimerci dal chiederci quale legittimità abbiamo di domandare e di domandare a ritroso così come facciamo. Abbiamo storicizzato tutta la “Storia Universale” (che, beninteso, non c’è mai stata prima di diventare oggetto di studio tra sette e ottocento), abbiamo reso quella scienza paradigmatica per l’umano che è la filologia il metro universale: ora dobbiamo storicizzare anche noi stessi. Nietzsche lo sapeva: verso un nuovo infinito, via da tutti i soli, da tutte le “nature”, scientifiche o meno, per redimere la pura natura. Ma che è questa? Una costruzione. La genealogia è anche essa una finzione, un’altra maschera. Ma una finzione che ha il merito di rendersi consapevole del suo errore, del suo necessario sognare; quando parliamo delle origini, della Grecia ad esempio, dobbiamo essere consapevoli che parliamo di noi, non dei Greci. Non possiamo fare altro che costruire questi artefatti, non possiamo fare altro che rimmemorare in errore, fare uno “spericolato uso del falso per dire il vero”, avrebbe detto Vico: ma non c’è altro da fare. La verità c’è, non è vero che non esista. Il fatto è che essa è relativa alle figure di mondo che incarna, è un dire in errore (necessario) la figura del suo evento indeclinabile che è l’assoluto ed è l’origine: ma sempre qui. Infatti l’origine non c’è mai, se non qui. E’ la vita vivente che ci attraversa, ciò di cui abbiamo sempre nostalgia nel ricordo, ma non perché essa appartenga ad un passato irrecuperabile: il rimmemorato infatti, essendo non altro nel suo significato che il contenuto della memoria, “in sé” non c’è mai stato: ovvero esso è sempre qui, nell’atto del rimmemorare. Non abbiamo nostalgia del passato (che non c’è mai stato se non nella figura del sapere), abbiamo nostalgia di ciò che è sempre qui ma che anche abbiamo sempre già perduto, della vita vivente ed eterna dell’animale e del dio, perduta per l’uomo nel sapere della morte, morte che soltanto accade qui e per l’animale non c’è mai: solo l’uomo muore, l’animale finisce, diceva Hegel, ed Heidegger confermava che “l’uomo è il mortale perché ha la morte in quanto morte, essa è in custodia al suo scrigno”. Ma state attenti ora: anche quello che ho scritto or ora, il mio parlare di “uomini” in generale, il mio parlare di “animali” e così via è una finzione. Essa è un modo tipico di quello specifico esercizio occidentale che è l’esercizio filosofico. Esso non è privo di verità, ma sa che la sua verità, genealogicamente, è una figura in errore della verità. Un significato (Bedeutung) che mira al senso (Sinn) il quale però non è mai definibile ed esauribile nel significato, essendo la garanzia di ogni e ciascun significato; esso tuttavia non sta altrove che nel significato, non è in un immaginario mondo dietro al mondo.
Ora, cosa ci dice la verità della filosofia, che negli ultimi due secoli, da Hegel, apice della metafisica, a noi, ha conosciuto così grandi sconvolgimenti, innanzitutto ad opera del divino Nietzsche? Che l’origine non c’è. Questo vuole dire che non possiamo più tollerare le storie sulla “natura” (che è un tipico oggetto culturale) ed innanzitutto la “natura umana”. Non c’è “L’uomo”, ci sono molte e varie umanità irriducibili (se non con la violenza della peculiare alfabetizzazione dell’occidente – ma questo è un lungo discorso che ci porterebbe lontano). E l’uomo non è una essenza, un fondamento fermo, è, come diceva Whitehead, un supergetto, qualcosa che è la sua stessa costruzione, o meglio, direbbe Carlo Sini, il riflesso delle sue pratiche di vita e del suo lavoro costruttore di automi, ovvero di cultura, di macchine (per questo non può ritornare alla vita vivente dell’animale, non può fuggire dalla sua cultura, dalle sue macchine culturali – non si sfugge dalla macchina, ne sapeva ben qualcosa Deleuze). Così non ha senso parlare di natura umana, di diritti di natura e così via: “l’uomo” non è una essenza da ricercare, ma è un prodotto sempre di nuovo da esibire nel suo momentaneo autotetico risultato. E sia ben chiaro: non è, l’uomo, neanche qualcosa di stabile biologicamente, scientificamente. Anche questo è un prodotto di una determinata cultura, che ha bensì la sua correttezza, ad esempio medica, ma che non si deve scambiare per una verità “in sé”. Innanzitutto, molto genericamente, perché sarebbe ora di mettersi in testa che è da Hegel che non ha più senso di parlare di cose “in sé” staccate dall’operare umano; in secondo luogo, perché il corpo biologico è in cammino ed in opera da Aristotele (Artaud diceva che è ora di “farla finita con il giudizio di Dio”: ma il giudizio di Dio è il giudizio di Aristotele, la sua anatomia, della quale dobbiamo liberarci per “grattare via il pidocchio della mortalità”) e quindi non è di ogni umanità, come fantasticano taluni. Tutto ciò non è un chiacchierar a vanvera naturalmente, ha le sue praticissime applicazioni: innanzitutto in politica (è sempre, Da la Repubblica di Platone, una questione politica), dove questo sopportare il pensiero del relativo e dell’infinito copernicano (non siamo ancora copernicani) sarebbe una utile via per finirla con chiacchiere sulla democrazia come giusto e ultimo fine della storia (e che al limite, in quanto giusto fine dell’uomo “in sé”, si può anche esportare con la forza per il bene di quei selvaggi che non la vogliono) o della “sacralità” della vita e dell’essere persona dell’embrione – discorsi da bar, discorsi che sono decisamente contro ogni decenza filosofica e che servono i desideri di vita eterna di alcuni che vorrebbero imporli con inaudita violenza a tutti e ciascuno. Incarnare una etica che ha dato l’addio al fondamento assoluto: questo è il compito oltreumano del pensiero odierno, con tutti i rischi, ma forse anche le gaie prospettive, che il rischio comporta. Imparare a tramontare, nell’epoca in cui di fatto l’occidente con il suo irresistibile sapere tramonta e trionfa, diventando, al di là del bene e del male, mondiale.

P.S. In realtà il pensiero presocratico non pensa, almeno fino a Parmenide, l’essere come lo pensiamo noi, anzi: forse come il pensiero cinese (molti hanno visto affinità tra il Tao e i presocratici) non ha alcun interesse verso l’essere, piuttosto verso il divenire. Ora, se si prende sul serio quello che ho scritto più sopra, proprio la necessità di sopportare la catastrofe di ogni figura determinata della verità, perché la verità continui a vivere, è la necessità del nostro tempo. I saggi cinesi suggerivano di “essere come l’acqua, che accompagna il mutamento e non occlude il passaggio”: un grande insegnamento che dovremmo fare nostro, per non cadere nel peccato della tenacia, che già Peirce vedeva come un grande errore, l’errore di volere immobilizzare il transito della verità in una smorfia mortifera, finendo per pensarla come i nostri “spensierati ingegneri”, come diceva Nietzsche.
 
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Codadilupo83
view post Posted on 11/7/2009, 19:36




P.P.S. Correggo quell'erroraccio che non avevo visto nella bozza: "E' da Hegel che non ha più senso parlare..."
 
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2 replies since 27/6/2009, 10:26   165 views
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