L'origine tra Hegel e Derrida

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Codadilupo83
view post Posted on 11/6/2009, 02:05




L’origine tra Hegel e Derrida



L’origine è tematizzata più o meno esplicitamente in tutta la produzione derridiana, in primo luogo per la sua intima complicità con l’operare della differenza nella traccia. In questo lavoro prenderemo le mosse da un breve saggio: «Qual quelle» Le fonti di Valéry. In questo scritto è presente un prezioso riferimento che potrebbe garantire una via d’accesso per comprendere la vicinanza della meditazione sull’origine tra una pensatore, Hegel, che costituisce l’apice stesso della metafisica occidentale, e nel contempo anche l’apertura del suo superamento, e Derrida, il quale trova proprio nella decostruzione della struttura metafisica il proprio peso specifico. Sebbene si faccia da parte di Derrida soltanto un riferimento veloce al lavoro hegeliano, nello specifico La scienza della logica, l’importanza del confronto si può leggere in filigrana per tutta la lunghezza del saggio, che, per altro, comporta anche una certa posizione nei riguardi di Heidegger, autore esplicitamente (ma forse solo esplicitamente) più notevole per il suo peso sulla riflessione complessiva di Derrida.
Derrida comincia precisando di volere smarcarsi da una ricerca delle fonti del testo di Valéry al modo storiografico positivo: il suo lavoro sarà diverso e comporterà un gesto che si attuerà «osservando da un luogo eccentrico, secondo un giro differente, la logica delle sue avversioni»; si cercheranno dunque, dice Derrida, le fonti che anche Valéry ha riconosciuto fugacemente per poi allontanarsene, ma esse non andranno interrogate se non là dove e per il motivo per cui Valéry se ne allontana: proprio nel luogo in cui esse lasciano marchi nel testo; queste fonti potrebbero ad esempio portare i nomi di Freud e Nietzsche. Non sarà però questo il filo che seguiremo. Piuttosto, duplicando il gesto derridiano, seguiremo le tracce che Derrida lascia, più o meno marcatamente, più o meno esplicitamente, nel suo commento: un discorso su di un discorso sul discorso di Valéry.
Derrida cita un passo di Valéry sulla fonte d’acqua nel quale immediatamente si profila la questione di cosa la fonte “sia”, un originario darsi che però esibisce un altrettanto originario perdersi e scindersi, compromettersi nella differenza dell’altro. D’altra parte, dice il filosofo, proprio l’occasione della celebrazione di Valéry spinge ad interrogarsi su cosa significhi rapportarsi ad una fonte, il che è il problema stesso della scrittura: che cosa deve accadere perché un testo che è stato possa divenire di nuovo un oggetto di cui appropriarsi, magari dopo lunghi anni, magari scoprendolo di nuovo e come qualcosa di nuovo rispetto a ciò che si conosceva un tempo? E cosa significa che la sua presenza già da subito è indipendente dall’autore che lo ha scritto, indipendente dalla sua vita, come una morte in anticipo, come se il suo resto implichi per resistere la necessità della morte? In ogni caso, la fonte a cui si ritorna è la medesima che si vuole nell’identità del passato storiografico?
Valéry, scrive Derrida, si è spesso confrontato con domande simili, per lui la fonte è stata una ossessione, e perciò stesso non ha mai potuto diventare propriamente un «tema», qualcosa che possa divenire un oggetto di retorica: «non può mai esserci, presente, posto davanti ad uno sguardo, standogli di fronte; esso non costituisce mai una unità presente o nascosta, un oggetto o un soggetto che sostenga, conformemente all’istanza o alla posizione del tema, un sistema di variazioni, di modulazioni, di trasformazioni il cui senso o contenuto sostanziale resterebbero in profondità identici a se stessi». La fonte non può mai essere tematizzata, non può «raccogliersi nella sua unità originaria» giacchè innanzitutto essa non ha un senso proprio. Solitamente si associa la fonte all’origine: tipica è l’immagine della fonte del corso d’acqua come sua origine; e tuttavia Derrida mostra come il senso proprio del termine fonte sia più ambiguo di quanto si pensi, e ciò essenzialmente per il carattere di quel che avrebbe la pretesa di designare, poiché «il senso proprio deriva dalla derivazione. Il senso proprio o il senso primitivo (della parola fonte, per esempio) non è più semplicemente la fonte ma l’effetto, trasportato altrove, di un giro, di un rigiro o di una deviazione. Viene come secondo rispetto a ciò a cui sembra dar nascita, perché misura rispetto ad esso uno scarto e una di-partita. La fonte stessa è l’effetto di ciò di cui essa (si) dà (come) origine». Il senso proprio non è il senso primitivo. Per comprendere cosa la fonte sia non serve ricercare il senso proprio del termine. Occorre piuttosto seguire i giri e i tragitti semantici che ne riproducono il movimento, dare ascolto alle allegorie ed alle metafore, ai loro trasferimenti e spostamenti, alle loro scissioni. Spesso, scrive Derrida, Valéry indica come fonte quella che per lui è l’origine assoluta, rispetto alla quale soltanto ogni cosa acquista un senso: l’io. Tutto ciò che è non-io deve all’io la sua propria presenza, tuttavia il punto in virtù del quale il mondo acquisisce senso, questo sguardo, non appare. Esso è a se stesso il suo punto cieco, non un luogo ma un dare luogo che, come fonte che si scinde in se stessa, a malapena esiste. Ma come origine questo movimento non è che un risultato, lo scindersi di ciò che si dà nel movimento continuo si espone alla sua riflessione e riceve di contraccolpo il luogo di partenza che è il luogo del ritorno. A questo punto Derrida cita espressamente Hegel:

Qui la fonte risulta. Si sarebbe senza dubbio fatto irritare Valéry […] se gli si fosse ricordato che questa proposizione – l’origine è il risultato – è letteralmente hegeliana, che essa raccoglie l’essenza della dialettica speculativa di cui essa è propriamente la proposizione. Non è per caso che Hegel la scrive in latino ( «der Anfang ist das Resultat») all’inizio della grande Logica. In Identità e differenza, anche Heidegger analizza, partendo da Hegel, questo risalto (resultare, resilire, resalire) dell’origine nel risultato, della tesi che fa da fondamento nel rimbalzo o nel contraccolpo riflessivo (Rückprall).


Veniamo ad Hegel e guadagniamo la sua posizione sul tema. Il problema dell’inizio è naturalmente determinante nel pensatore tedesco e attraversa per intero la sua produzione, tuttavia vi è un luogo particolare in cui egli viene alle prese con il fondamento metafisico o “logico” stesso della questione, e ciò accade nella Wissenschaft der Logik. Come si può pensare di cominciare da qualche parte, se il sapere aspira ad essere perfetto, assoluto, e non lasciare nulla fuori di sé? Infatti, ponendo un principio dal quale si dovrebbe iniziare in maniera immediata, lo si rende esterno al sapere che comprende, poiché questo è mediazione, riflessione, piega del tutto su se stesso come suo proprio compimento infinito nel senso della buona infinità. L’infinità dell’immediato piuttosto è una cattiva infinità, che itera semplicemente se stessa in una irrazionale situazione per la quale il principio della mediazione non si può mediare.
Scrive Hegel: «Il cominciamento della filosofia è di necessità o un mediato oppure un immediato, ed è facile mostrare che non può essere né l’uno né l’altro; cosicché tutte e due le maniere di cominciare sono soggette ad essere confutate».
Il problema così posto sembra irrisolvibile, almeno secondo le categorie del senso comune, che prevede una modalità del pensiero secondo uno schema lineare-causale, nel quale venga identificato con certezza un punto di partenza sul quale fondare il sistema di ragionamento. Neanche il classico modo metafisico di intendere come origine una causa finale, almeno nella sua rilettura più diffusa e storiograficamente sostenuta, risolve la questione, poiché risulta soltanto speculare al primo modo, sebbene non sia così ingenuo. Tuttavia Hegel non si muove su questo piano e, con una mossa geniale, come scrive Marcuse nella sua Hegels Ontologie, rovescia «l’archistruttura» della metafisica nel suo fondamento: se per la tradizione il movimento era soggetto alla necessità di un motore trascendentale, di una causa prima, ora il concetto come verità e ragione del movimento diviene soggetto della necessità, vale a dire libero, dal cuore del movimento stesso, di modo che la riscoperta e la ripresa che Hegel opera della ontologia di Aristotele anche la sopravanza nel suo fondamento. Ma andiamo con ordine. Hegel opera questo suo ribaltamento della questione esibendo quale è l’attività circolare della mediazione assoluta:

Bisogna riconoscere che è questa una considerazione essenziale (che risulterà poi meglio dalla logica stessa), - la considerazione cioè che l’andare innanzi è un tornare addietro al fondamento, all’originario ed al vero, dal quale quello, con cui si era cominciato, dipende, ed è, infatti, il prodotto […]. Quest’Ultimo, il fondamento, è poi allora anche quello da cui sorge il Primo, quel Primo che dapprincipio si affacciava come immediato. – Così, meglio ancora, si conosce lo spirito assoluto (che si mostra qual concreta ed ultima altissima verità di ogni essere) come quello che al termine dello sviluppo liberamente si estrinseca e si emancipa nella forma di un essere immediato, - si risolve cioè alla creazione di un mondo, il quale contiene tutto ciò ch’era compreso nello sviluppo preceduto a quel resultato, mentre per questa posizione rovesciata tutto cotesto è tramutato insieme col suo cominciamento in un che di dipendente dal resultato come dal suo principio. L’essenziale per la scienza non è tanto che il cominciamento sia un puro immediato, quanto che l’intiera scienza è in se stessa una circolazione, in cui il Primo diventa anche l’Ultimo, e l’Ultimo anche il Primo.

L’inizio apparentemente immediato che si presentava come un vulnus irrimediabile all’interno del tessuto della scienza è infine ricomposto, poiché l’apparenza dell’immediato è stata ricompresa all’interno della mediazione assoluta in virtù di quel movimento immanente che è la vita stessa del concetto. Quella necessità “empirica”, quel vuoto che non si può dire, che da principio garantiva un punto d’appoggio per imboccare il discorso e guadagnare la sua compiutezza, si rivela di poi una esteriorità al sapere soltanto illusoria e destinata ad esser tolta da tale compiutezza:

Quello, da cui in una tale esposizione si comincia, non è quindi il concreto stesso, ma solo il semplice immediato, da cui il movimento si parte […]. Perocché solo nel semplice non v’è nulla oltre il puro cominciamento; solo l’immediato è semplice, poiché solo nell’immediato non v’è ancora un avere proceduto da uno a un altro. Quindi è che quello che dovrebb’essere espresso o contenuto oltre l’essere, nelle più ricche forme della rappresentazione dell’assoluto o di Dio, cotesto non è nel cominciamento se non una vuota parola, e soltanto l’essere, questo semplice, che non possiede alcun più ampio significato, questo vuoto, è dunque, semplicemente il cominciamento della filosofia.
Questa veduta è essa stessa così semplice, che questo cominciamento, come tale, non richiede alcuna preparazione né alcuna più estesa introduzione. E questi preamboli, a guisa di ragionamenti intorno a un tal cominciamento, non poteron già aver lo scopo d’introdurre il cominciamento stesso, ma ebbero anzi quello di allontanare ogni preambolo.

Il movimento che garantisce la riconduzione dell’origine entro la totalità della scienza è inquadrato da Hegel nel secondo libro della Wissenschaft, la Dottrina dell’essenza. Qui centrale è il ruolo della riflessione, in virtù della quale l’iniziale immediatezza viene mediata «il Primo viene tolto come tale per essere ripreso come momento interno al circolo della mediazione».
Mediato ed immediato si rivelano il medesimo, nella differenza, che consente la eliminazione dell’esterno della scienza. Sviluppato, questo procedimento innesca la sua stessa chiarificazione dialettica: il movimento esibisce la propria contraddittorietà, promotrice della attività del concetto, nella complicazione dei due opposti concostitutivi. Il passaggio hegeliano è decisivo: l’insistenza nell’approfondire questo movimento risulta necessaria al principio medesimo che orienta la ragione dialettica – una ragione che si giustifica esclusivamente dall’interno e ponendo le proprie categorie nella loro reciproca permeabilità contraddittoria e tuttavia necessaria. La vertigine di tale contraddittorietà è perciò stesso il veicolo del proprio esplicitarsi; a questo fine Hegel esibisce con forza ed a più riprese il mutuo rapportarsi della immediatezza e della mediazione: il lavoro della negazione ha una portata inestimabile in questa relazione mutevole ed inarrestabile
Mediato ed immediato sono posti in unità, in una «differenza indifferente». L’unità contraddittoria di immediatezza e mediazione è così descritta dal filosofo tedesco:

E’ l’immediatezza del non essere, quella che costituisce la parvenza; questo non essere però non è altro che la negatività dell’essenza in lei stessa. L’essere è non essere nell’essenza. La sua nullità in sé è la natura negativa dell’essenza stessa. Ma l’immediatezza o indifferenza, che contien questo non essere, è il proprio assoluto essere in sé dell’essenza. La negatività dell’essenza è la sua uguaglianza con se stessa, o la sua semplice immediatezza od indifferenza. L’essere si è conservato nella essenza, in quanto questa nella sua infinita negatività ha questa eguaglianza con se stessa; per questa via l’essenza stessa è l’essere. L’immediatezza, che ha la determinatezza nella parvenza di fronte all’essenza, non è qui altro che la propria immediatezza dell’essenza; ma non l’immediatezza in quanto è, sibbene quell’immediatezza assolutamente mediata o riflessa che è la parvenza; - l’essere di fronte alla mediazione; l’essere come momento.

Dunque l’origine non è mai, ovvero è sempre come effetto e risultato. Il proiettarla all’indietro è una fascinazione necessaria di ogni figura, e tuttavia una fascinazione. La mediazione si retroflette come immediato. L’essere e l’essenza si determinano specificatamente in questa “figura” della parvenza come un ribalzo, un contraccolpo:

La parvenza è l’essenza stessa nella determinatezza dell’essere. Quello, per cui l’essenza ha una parvenza, è che l’essenza è determinata in se stessa epperò è diversa dalla sua assoluta untià. Ma questa determinatezza è altrettanto assolutamente tolta in lei stessa. Perocché l’essenza è il per sé stante che è come quello che si media con sé per mezzo della negazione sua che è lui stesso; è dunque l’identica unità della negatività assoluta e dell’immediatezza. – La negatività è la negatività in sé; è il suo riferimento a sé, e così essa è in sé immediatezza. Ma è riferimento negativo a sé, è un repellente negar se stessa, e così l’immediatezza in sé è di fronte a lei il negativo ovvero il determinato. Ma questa determinatezza è essa stessa l’assoluta negatività e questo determinare che immediatamente come determinare è il toglier se stesso, è ritorno in sé.

Lo specifico dell’essenza è il suo movimento negativo a sé, è un togliersi dell’essere che lo conserva in questo rilevamento e lo proietta nell’essenza non come un qualcosa di separato ma come quell’immediato che è l’essenza stessa assolutamente mediata, che è la determinatezza dell’essere innanzi alla mediazione, «l’essere come momento». Seguendo la prospettiva dell’essenza l’essere in quanto immediato diventa parvenza, cioè l’origine è sempre questo rimbalzo assoluto, sempre un estrinsecarsi, sempre una non-origine. Tuttavia sarebbe a sua volta un errore sostituire al fondamento in quanto essere il fondamento in quanto essenza. E’ proprio questo in quanto che deve essere ripensato nella sua circolazione dinamica, nel suo movimento di fonte diadica. Come scrive Matteo Bonazzi: «Il punto consiste nel comprendere che questo “tornare addietro”, ritornare (Rückgang), dall’essere nell’essenza non può più condurci ad un nuovo fondamento immediato; l’essenza non è un fondamento, un substrato, una sostanza che avrebbe di fronte la parvenza come un altro». L’esercizio filosofico consiste appunto nel rimanere in equilibrio su questo precipizio, in questa impossibilità di pensare la questione dal punto di vista delle categorie del senso comune. Essenza e parvenza sono distinte ma non separate, sono il medesimo ma nella differenza, anzi: sono questo scavarsi della differenza stessa, ma non come una differenza da qualcosa di determinato, piuttosto la differenza stessa in quanto determina la determinazione. Se si prende sul serio questa «struttura paradossale, tale per cui vi è sempre e solo la diade e dunque la necessità nonché la chiamata di un ritorno» in Hegel, come ancora suggerisce Bonazzi, è impossibile non notare la sua contiguità logica con la struttura del movimento della traccia derridiana. La parvenza e la traccia sono quel resto che è tutto ciò che consiste: in questo consistere vi è un rimando che allude al proprio sprofondo, ma tale sprofondo propriamente non vi è mai. L’insistere della traccia-parvenza nel suo spazio è lo scavarsi stesso del rimando del donde e del verso dove che sono niente altro che un fantasma; di nuovo ci viene in aiuto Marcuse per comprendere questa logica inusuale:

Il concetto di Hegel è stato ottenuto da una interpretazione del tutto concreta dell’essere come movimento; esso significa un’autentica riscoperta ed al tempo stesso una nuova determinazione della categoria aristotelica del ti en einai […] l’essere di questo ente non viene trovato, se non come la «totalità negativa» di tutte le momentanee determinazioni immediate […]. Ma per poter essere presente in tutte queste determinazioni […] (la pianta) deve sempre necessariamente essere già stata (gewesen) prima di tutte queste singole determinazioni […]. L’ «essere» (della pianta) è quindi un’ «essenza» (Wesen): in primo luogo, essa non può essere definita se non come «ciò che l’essere era (già sempre)», to ti en einai.

Il carattere del termine «prima» è decisivo e non può essere considerato nel significato che esso assume per lo più nella quotidianità: l’essenza considerata al modo di Hegel non è qualcosa che stia prima dell’ente che essa pone; essa pone l’ente, ma nel senso che il movimento stesso mediante il quale l’ente è posto viene a costituirne l’essenza, di modo che essa medesima si costituisce specularmente a partire da questo; essa «presuppone il movimento che la pone e la manifesta riflessivamente: l’essenza è tale solo nel suo apparire, e pertanto non fonda l’esperienza, ciò che da essa deriva, più di quanto non ne dipenda».
Derrida si appropria di questo gioco apportando la differenza dell’Evento. Tale differenza si scava nella differenza specifica tra origine e fonte, tra il retroflettersi all’indietro della figura del «soggetto supposto sapere», come avrebbe detto Lacan, e la sua inevitabile separazione continua, la struttura per la quale ogni moto funziona uscendo fuori da sé e non essendo altrove da questo sdoppiarsi, un appropriarsi della propria identità determinata che è appunto un estrinsecarsi e niente altro che questo. In questa prospettiva Derrida cita altri numerosi riferimenti di Valéry alla contraddizione naturale tipica della fonte, ovvero il suo essere donazione consistente appunto nell’esser fuori di sé proprio nel suo porsi specifico.
Per comprendere più profondamente questa Urteilung originaria è d’aiuto un riferimento ad un altro autore. Nello stesso passo in cui Derrida fa riferimento ad Hegel, compare anche il nome di Heidegger, proprio in relazione alla lettura che questi fa, in Identità e differenza, della dialettica origine-risultato in Hegel. Qui però il riferimento sarà svolto in direzione diversa. Il concetto di φύσις in Heidegger è il nostro ulteriore passaggio in direzione della fonte. Tale concetto è presente in molteplici scritti del “secondo” Heidegger, ma noi si opterà per una citazione da un saggio dedicato ad un poeta molto caro al filosofo, un poeta amico di Hegel: Hölderlin.

Fusis, fuein significa la crescita. Ma come intendono la crescita i Greci? Non come l’accrescimento quantitativo, neppure come «evoluzione» e neppure come la successione di un «divenire». Fusis è il venire fuori e il sorgere, l’aprirsi che sorgendo ritorna al tempo stesso nel suo venire fuori e così si racchiude in ciò che di volta in volta fa essere presente un ente. Fusis, pensata come parola fondamentale, significa il sorgere nell’aperto, il diradare e illuminare (das Lichten) di quel luco (Lichtung) nel quale soltanto qualcosa può in generale apparire, profilarsi, mostrarsi nel suo «aspetto» (eidos, idea) e così essere presente come questa o quella cosa. Fusis è il ritrarsi in sé sorgendo (das aufgehende In-sich-zurück-Gehen) e nomina il far essere presente ciò che sosta nell’aperto di questo sorgere essenziante.

Questo scrive Heidegger in «Come quando al dì di festa…». Questo breve riferimento al pensatore di Friburgo ha la volontà di precisar ancora di più la natura paradossale del movimento che cerchiamo di inquadrare. Più avanti nel testo Heidegger opera metafore visive per chiarire la natura della φύσις: essa è come la luce che garantisce la visione proprio nel suo scindersi, nel suo immediato mediarsi «Ciò che è già prima presente in tutto raccoglie ogni ente isolato nell’unica presenza e la sua mediazione fa sì che ogni ente possa apparire. L’immediata onnipresenza è la mediatrice di tutto ciò che è per mezzo di mediazione e quindi del mediato. L’immediato stesso non è mai esso stesso un ente mediato, ma invece l’immediato, a rigore, è la mediazione». Ma ancora più chiaro è il filosofo in un saggio successivo, sempre dedicato ad Hölderlin, «Rammemorezione». Qui Heidegger dice espressamente che la sorgente non coincide con l’inizio, piuttosto essa è quel movimento che istituisce il proprio e l’identità come il ritorno. Anche Heidegger avanza dunque nella direzione che pone il tema dell’origine come problematico, come una domanda che è stata tradizionalmente mal posta. Tutto ciò è ben presente a Derrida e rientra pienamente nel discorso sulla différance, la quale si trova in una complicazione indissociabile con la struttura della fonte, una fonte che «nasce da questo stesso sottrarsi, come un miraggio situato, un sito inscritto in un campo non orientato. Essa non è nulla prima che la si cerchi, è soltanto un effetto prodotto dalla struttura di un movimento. La fonte non è dunque l’origine, essa non è né alla di-partita né all’arrivo». In questa vicinanza al testo hegeliano si pone anche la differenza da esso: Derrida ci dice che ciò che il movimento della fonte è, è proprio quello che non si può inscrivere nella mediazione assoluta come il Primo o come l’Ultimo, non già perché esso starebbe altrove, piuttosto perché gli appartiene la logica verticale dell’evento, quella struttura che consente la presenza e tuttavia sempre la eccede non essendo in un altro luogo. Propriamente specifico della fonte è il non avere luogo ma il dare luogo, essa non si scrive nel testo, ad esempio nel testo hegeliano, non perché essa sarebbe un qualche altrove che soltanto un atteggiamento mistico potrebbe evocare, piuttosto perché essa è il gesto stesso dello scrivere, quell’inaggirabile inacessibilie inapparente che produce l’effetto e quindi non può mai essere ricompreso in esso. La fonte, come dice Derrida, è un ritardo: il ritardo che la dice, come ritardo del sapere sulla vita, il ritardo che significa nell’uno la diade originaria che non può avere senso proprio perché è la garanzia di un senso, lo spazio fessurato dell’accadere. Derrida scrive che questo movimento di fonte è la potenzialità, o meglio la potenza: δύναμις. Ciò potrebbe apparire in contraddizione con quanto implicito nel discorso che prevede come legge stessa della riflessione sull’origine la primalità dell’atto sulla potenza; tuttavia in questa opposizione “metafisica” si perde il senso del rapporto tra possibile e reale, rapporto che si può comprendere senza rifiutare la legge dell’atto; infatti la possibilità non è in questa tensione l’opposto dell’atto, piuttosto è il suo orlo, la sua stessa determinazione. Come accade nel sillogismo disgiuntivo hegeliano, ogni parte determinata raccoglie nella propria figura il tutto al limite: è in questa posizione che al tempo stesso è negazione determinata che possibilità e realtà si garantiscono vicendevolmente, proprio nello scavarsi della differenza tra la traccia e il suo altro che è tutto in lei e in nessun altro luogo, ma, proprio per questo, la differisce e la determina come via da tutti i luoghi; la differenza stessa si presenta nel differire determinato della figurazione che è complicazione di presente ed assente, oscillazione in cui la presenza si assenta e la assenza si presenza. Luogo semiotico per definizione, in cui il sistema di rimandi si raccoglie nella determinazione del senso perdendovisi, rilanciando la propria significazione mai possibile che è la possibilità medesima del senso e del significato, gioco del nominato, del nominabile e dell’innominabile che è lo spazio in cui è rintracciabile «l’io» come lo intende Valéry.
 
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Mr Dan
view post Posted on 11/6/2009, 09:36




Ciao! Benvenuto, sta sera me lo leggo, è impegnativo!
 
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Mr Dan
view post Posted on 11/6/2009, 21:38




L'hai scritto tutto te?
 
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Codadilupo83
view post Posted on 11/6/2009, 23:35




Sì, è una relazione che ho scritto per un seminario/laboratorio all'Università Statale di Milano.
 
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Dmitrievich2
view post Posted on 12/6/2009, 22:30




benvenuto codadilupo83!

è bello ostico, lo sto leggendo a piccole dosi. Grazie del contributo filosofico.
 
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4 replies since 11/6/2009, 02:05   350 views
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