| Questo mio intervento è il medesimo in due discussioni, e questo perché mi pare esse si muovano su di un terreno in ultimo comune, ovvero quello che si pone il problema della origine, l’una più in generale, l’altra nello specifico della questione morale. Ho letto cose molto virtuose ed interessanti in queste discussioni e così mi sono detto che era l’occasione di intervenire. L’origine. L’uomo. Il linguaggio. Le tribù. Ma ci sono queste cose? Heidegger, ad esempio, compie un lavoro straordinario etimologico-filosofico che un poco ricorda il vichiano tentativo di reciproca fecondazione filosofia-filologia (verum et factum conventuntur); e così il buon Martin ha consegnato una eredità al nostro presente filosofico che è decisiva e della quale non possiamo fare a meno. Ma prima di lui la genealogia nicciana: l’unico modo filosoficamente fondato di parlare della “storia” e dell’ “origine” (a parte il modo logico-metafisico del quale ho già scritto su Hegel e Derrida). Qui arriviamo al punto. Noi possiamo bensì parlare del passato e dire: vedi, questa è l’origine di quello che siamo, questo nostro uso deriva da questo, l’uomo viene dalla scimmia, il libro (il testo) viene dalla esportazione della carta dalla Cina in Europa dove si sono applicati “nuovi usi di vecchie funzioni”, per usare una espressione di Wright. Queste constatazioni storiche etnografiche filologiche antropologiche sono preziosissime. Ma qui la filosofia non è ancora arrivata, con il suo ronzio fastidioso e la sua puntura da tafano, con il suo sguardo spaesante e il suo occhio bovino. Essa arriva e chiede: caro amico, che legittimità ha il tuo dire? domandi, ma ogni domanda vuole l’origine? e all’origine sta la domanda? oppure, quale è l’origine del domandare? e può chi così domanda credere di catturare con la sua domanda lo stacco evenemenziale che ha dato avvio alla domanda, un luogo che non prevede domande e di cui non si può dare “definizione”? Certo, in quanto occidentali non possiamo che domandare, proprio nel momento del trionfo dell’occidente su scala planetaria. Ma se vogliamo esercitare la filosofia, ovvero celebrare la razionalità occidentale nella sua manifestazione più alta, non possiamo esimerci dal chiederci quale legittimità abbiamo di domandare e di domandare a ritroso così come facciamo. Abbiamo storicizzato tutta la “Storia Universale” (che, beninteso, non c’è mai stata prima di diventare oggetto di studio tra sette e ottocento), abbiamo reso quella scienza paradigmatica per l’umano che è la filologia il metro universale: ora dobbiamo storicizzare anche noi stessi. Nietzsche lo sapeva: verso un nuovo infinito, via da tutti i soli, da tutte le “nature”, scientifiche o meno, per redimere la pura natura. Ma che è questa? Una costruzione. La genealogia è anche essa una finzione, un’altra maschera. Ma una finzione che ha il merito di rendersi consapevole del suo errore, del suo necessario sognare; quando parliamo delle origini, della Grecia ad esempio, dobbiamo essere consapevoli che parliamo di noi, non dei Greci. Non possiamo fare altro che costruire questi artefatti, non possiamo fare altro che rimmemorare in errore, fare uno “spericolato uso del falso per dire il vero”, avrebbe detto Vico: ma non c’è altro da fare. La verità c’è, non è vero che non esista. Il fatto è che essa è relativa alle figure di mondo che incarna, è un dire in errore (necessario) la figura del suo evento indeclinabile che è l’assoluto ed è l’origine: ma sempre qui. Infatti l’origine non c’è mai, se non qui. E’ la vita vivente che ci attraversa, ciò di cui abbiamo sempre nostalgia nel ricordo, ma non perché essa appartenga ad un passato irrecuperabile: il rimmemorato infatti, essendo non altro nel suo significato che il contenuto della memoria, “in sé” non c’è mai stato: ovvero esso è sempre qui, nell’atto del rimmemorare. Non abbiamo nostalgia del passato (che non c’è mai stato se non nella figura del sapere), abbiamo nostalgia di ciò che è sempre qui ma che anche abbiamo sempre già perduto, della vita vivente ed eterna dell’animale e del dio, perduta per l’uomo nel sapere della morte, morte che soltanto accade qui e per l’animale non c’è mai: solo l’uomo muore, l’animale finisce, diceva Hegel, ed Heidegger confermava che “l’uomo è il mortale perché ha la morte in quanto morte, essa è in custodia al suo scrigno”. Ma state attenti ora: anche quello che ho scritto or ora, il mio parlare di “uomini” in generale, il mio parlare di “animali” e così via è una finzione. Essa è un modo tipico di quello specifico esercizio occidentale che è l’esercizio filosofico. Esso non è privo di verità, ma sa che la sua verità, genealogicamente, è una figura in errore della verità. Un significato (Bedeutung) che mira al senso (Sinn) il quale però non è mai definibile ed esauribile nel significato, essendo la garanzia di ogni e ciascun significato; esso tuttavia non sta altrove che nel significato, non è in un immaginario mondo dietro al mondo. Ora, cosa ci dice la verità della filosofia, che negli ultimi due secoli, da Hegel, apice della metafisica, a noi, ha conosciuto così grandi sconvolgimenti, innanzitutto ad opera del divino Nietzsche? Che l’origine non c’è. Questo vuole dire che non possiamo più tollerare le storie sulla “natura” (che è un tipico oggetto culturale) ed innanzitutto la “natura umana”. Non c’è “L’uomo”, ci sono molte e varie umanità irriducibili (se non con la violenza della peculiare alfabetizzazione dell’occidente – ma questo è un lungo discorso che ci porterebbe lontano). E l’uomo non è una essenza, un fondamento fermo, è, come diceva Whitehead, un supergetto, qualcosa che è la sua stessa costruzione, o meglio, direbbe Carlo Sini, il riflesso delle sue pratiche di vita e del suo lavoro costruttore di automi, ovvero di cultura, di macchine (per questo non può ritornare alla vita vivente dell’animale, non può fuggire dalla sua cultura, dalle sue macchine culturali – non si sfugge dalla macchina, ne sapeva ben qualcosa Deleuze). Così non ha senso parlare di natura umana, di diritti di natura e così via: “l’uomo” non è una essenza da ricercare, ma è un prodotto sempre di nuovo da esibire nel suo momentaneo autotetico risultato. E sia ben chiaro: non è, l’uomo, neanche qualcosa di stabile biologicamente, scientificamente. Anche questo è un prodotto di una determinata cultura, che ha bensì la sua correttezza, ad esempio medica, ma che non si deve scambiare per una verità “in sé”. Innanzitutto, molto genericamente, perché sarebbe ora di mettersi in testa che è da Hegel che non ha più senso di parlare di cose “in sé” staccate dall’operare umano; in secondo luogo, perché il corpo biologico è in cammino ed in opera da Aristotele (Artaud diceva che è ora di “farla finita con il giudizio di Dio”: ma il giudizio di Dio è il giudizio di Aristotele, la sua anatomia, della quale dobbiamo liberarci per “grattare via il pidocchio della mortalità”) e quindi non è di ogni umanità, come fantasticano taluni. Tutto ciò non è un chiacchierar a vanvera naturalmente, ha le sue praticissime applicazioni: innanzitutto in politica (è sempre, Da la Repubblica di Platone, una questione politica), dove questo sopportare il pensiero del relativo e dell’infinito copernicano (non siamo ancora copernicani) sarebbe una utile via per finirla con chiacchiere sulla democrazia come giusto e ultimo fine della storia (e che al limite, in quanto giusto fine dell’uomo “in sé”, si può anche esportare con la forza per il bene di quei selvaggi che non la vogliono) o della “sacralità” della vita e dell’essere persona dell’embrione – discorsi da bar, discorsi che sono decisamente contro ogni decenza filosofica e che servono i desideri di vita eterna di alcuni che vorrebbero imporli con inaudita violenza a tutti e ciascuno. Incarnare una etica che ha dato l’addio al fondamento assoluto: questo è il compito oltreumano del pensiero odierno, con tutti i rischi, ma forse anche le gaie prospettive, che il rischio comporta. Imparare a tramontare, nell’epoca in cui di fatto l’occidente con il suo irresistibile sapere tramonta e trionfa, diventando, al di là del bene e del male, mondiale.
P.S. In realtà il pensiero presocratico non pensa, almeno fino a Parmenide, l’essere come lo pensiamo noi, anzi: forse come il pensiero cinese (molti hanno visto affinità tra il Tao e i presocratici) non ha alcun interesse verso l’essere, piuttosto verso il divenire. Ora, se si prende sul serio quello che ho scritto più sopra, proprio la necessità di sopportare la catastrofe di ogni figura determinata della verità, perché la verità continui a vivere, è la necessità del nostro tempo. I saggi cinesi suggerivano di “essere come l’acqua, che accompagna il mutamento e non occlude il passaggio”: un grande insegnamento che dovremmo fare nostro, per non cadere nel peccato della tenacia, che già Peirce vedeva come un grande errore, l’errore di volere immobilizzare il transito della verità in una smorfia mortifera, finendo per pensarla come i nostri “spensierati ingegneri”, come diceva Nietzsche.
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